Ne bis in idem: i limiti previsti dalla corte di giustizia

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Corte di Giustizia dell’UE, Grande Sezione, sentenza 20 Marzo 2018 n. C-537/16

La corte di Giustizie dell’UE ha stabilito che non si può celebrare un procedimento amministrativo avente ad oggetto un fatto per cui è già stata pronunciata una condanna penale definitiva, atteso che il procedimento e la sanzione siano qualificabili come penali, ovvero che la sanzione persegua una finalità repressiva, ovvero che la sanzione presenti un tale livello di gravità da poter essere qualificata come penale.

L’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE stabilisce che “Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”. Nello specifico, tale disposizione non si limita ai soli procedimenti e sanzioni qualificati come penali dal diritto nazionale, ma si estende a procedimenti e sanzioni che devono essere considerati di natura penale o perché la sanzione persegue una finalità repressiva o perché il grado di severità della sanzione fa sì che questa rivesta natura penale.
Compito della Corte di Giustizia è dunque quello di garantire una corretta applicazione dell’art. 50 in relazione al principio del ne bis in idem, decidendo se la previsione dell’articolo in questione ponga qualche resistenza alla possibilità di celebrare un procedimento amministrativo che ha ad oggetto fatti per cui sia stata già pronunciata una condanna penale definitiva, e se il giudice nazionale possa applicare i principi dell’UE in relazione al ne bis in idem.
a tal proposito, nella causa C-537/16, la Corte di Giustizia si è trovata dinanzi al caso in cui un cittadino italiano veniva colpito da una sanzione amministrativa pecuniaria per violazione della normativa in materia di manipolazione del mercato. Invero, l’art. 187-ter del Testo Unico della Finanza prevede che chiunque abbia commesso manipolazioni del mercato sia punito con una sanzione amministrativa pecuniaria da 20.000 a 5.000.000 di euro, con la possibilità di aumento di detta sanzione fino al triplo o fino a dieci volte il profitto conseguito dall’illecito.
Ebbene, secondo la Corte, la possibilità di veder aumentata la sanzione fino al triplo o a dieci volte il profitto conseguito, presenta un tale elevato grado di severità da configurare la sanzione come penale.
In questo senso, l’art. 50 pone resistenza ad un’eventuale normativa nazionale che consenta di attivare un processo riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria nei confronti dell’autore della manipolazione del mercato, per il quale già è stata pronunciata condanna definitiva a suo carico, atteso che la sanzione sia idonea a reprimere l’illecito in maniera efficace, proporzionale e dissuasiva.
è altresì interessante la riflessione che emerge dalla cause riunite C-596/16 e C-597/16 aventi ad oggetto la legittimità di sanzioni amministrative pecuniarie irrogate per abuso di informazioni privilegiate.
In questo senso, l’art. 14 della direttiva 2003/6/CE relativa all’abuso di informazioni privilegiate stabilisce che “fatto salvo il diritto degli Stati membri di imporre sanzioni penali, gli Stati membri sono tenuti a garantire, conformemente al loro ordinamento nazionale, che possano essere adottate le opportune misure amministrative o irrogate le opportune sanzioni amministrative a carico delle persone responsabili del mancato rispetto delle disposizioni adottate in attuazione della presente direttiva. Gli Stati membri sono tenuti a garantire che tali misure siano efficaci, proporzionate e dissuasive”. Leggendo la disposizione alla luce dell’art. 50, sembra che questa non ponga alcuna resistenza ad una normativa nazionale in virtù della quale un procedimento volto ad irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria penale non possa essere perseguito in seguito ad una sentenza penale definitiva di assoluzione che abbia stabilito che i fatti, alla base della violazione della normativa sugli abusi di informazioni privilegiate, non erano provati.
L’art. 50 della Carte delinea allora i limiti del principio del ne bis in idem.
La Corte, tra l’atro, ha più volte limitato la portata di tale disposizione in virtù dell’art. 52 ai sensi del quale “Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”.

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